ANPI. PIANORO - BENTIVOGLIO -CASTELMAGGIORE
Eritrei liberi subito.
Noi donne e uomini liberi che si riconoscono nei valori della Costituzione della Repubblica Italiana nata dalla Resistenza alla barbarie Nazifascista affermiamo che la questione dei cittadini eritrei portati manu militari nel sud della Libia a e sottoposti a maltrattamenti e a torture di ogni tipo parla alle nostre coscienze, ci interroga da vicino ed esige risposte appropriate da parte dello Stato Italiano.
Buona parte di loro fanno parte di coloro che nei mesi scorsi sono stati intercettati nel canale di Sicilia e rimandati indietro dalla nostra marina militare. Sono le vittime dei cosiddetti respingimenti, in perfetta violazione del diritto internazionale,della dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e dell’art. 10 della Costituzione della Repubblica Italiana che recita “lo straniero al quale sia impedito nel suo paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalle legge.”, sempreché sul territorio gli sia permesso di arrivare.
Oggi, anche grazie ai nostri pertanto illegali respingimenti, tra l’altro documentati, quei giovani rischiano di essere rimandati in patria, dove la brutale dittatura di Isaias Afewerki prevede il servizio militare di durata illimitata e una pena severissima per chi abbandona senza permesso il territorio nazionale. Chiedono di essere reinsediati in un paese terzo che riconosca il loro stato di richiedenti asilo, uno status che in Libia, che non ha firmato la Convenzione di Ginevra, semplicemente non esiste.
Ai 205 Eritrei è stato proposto un accordo-farsa: liberazione in cambio di identificazione e lavori socialmente utili in Libia. Ma l’identificazione rende questi giovani, e le loro madri, mogli, sorelle rimaste in patria, ricattabili a vita. Lo stesso accordo di integrazione proposto lega a tempo indeterminato gli eritrei alla comune di lavoro alla quale verrebbero assegnati ed impedisce loro qualsiasi futuro riconoscimento dello stato di rifugiato perché una volta qualificati come “migranti economici”, e dopo avere chiesto “protezione”, attraverso la richiesta dei documenti identificativi alla loro rappresentanza diplomatica in Libia, potrebbe ritenersi venuta meno la ragione per riconoscere loro, anche da parte dell’UNHCR, lo status di protezione internazionale.
Siamo dunque al cospetto di una riedizione nazista in versione Libica del famigerato “ARBEIT MACHT FREI”? Che vorrebbe riconoscere quindi agli eritrei la libertà di lavorare come schiavi in uno dei campi di lavoro socialmente utile, affidati alla rigida organizzazione dei tanti gerarchi libici e che la Libia esibisce con orgoglio per dimostrare il carattere socialista del suo regime?
I ragazzi eritrei resistono e non hanno accettato questo accordo perché non sono immigrati irregolari in attesa di regolarizzazione, ma richiedenti asilo che vogliono veder riconosciuto il proprio stato di rifugiati.
Vorremmo che i nostri parlamentari ed i partiti, che in passato hanno approvato gli accordi con la Libia , in base ai quali erano previsti, oltre alla cessione di mezzi navali e terrestri, un sistema di comando interforze unificato a guida libica, riflettessero sulle conseguenze del loro voto di ratifica. Soprattutto per la legittimazione che quel voto ha rappresentato per le politiche più violente di Gheddafi nei confronti dei migranti, in gran parte potenziali richiedenti asilo, persone che se fossero giunte in Italia, come gli eritrei, avrebbero certamente avuto diritto ad una protezione internazionale.
Vorremmo anche, oltre al blocco - già avvenuto- dei negoziati tra l’Unione Europea e la Libia in materia di immigrazione, che la Corte Europea dei diritti dell’uomo si pronunci al più presto sul ricorso presentato contro l’Italia dopo i respingimenti collettivi in mare effettuati da nostre unità militari (nave Bovienzo) il 6 e 7 maggio dello scorso anno, quando i militari italiani abbandonavano i naufraghi, donne e minori compresi, in Libia, sulla banchina del porto di Tripoli. Da quella decisione della Corte di Strasburgo e dalla sua portata potrebbe dipendere il destino di molte vite.
E vorremmo conoscere anche gli sviluppi del processo in corso a Siracusa contro alti responsabili della Guardia di Finanza e del Ministero dell’interno, per i respingimenti collettivi effettuati qualche mese dopo verso la Libia.
In modo diverso, sono tutti fatti che si legano alla terribile sorte dei profughi eritrei rinchiusi oggi in Libia nel carcere di Braq
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