19 febbraio 2021

Strappano la memoria, danneggiato il Cippo al Ronchetto sul Naviglio. Milano

Strappate le immagini in ceramica di tre Partigiani dal Cippo che ricorda i caduti della Battaglia del Ronchetto sul Naviglio di Milano, 25 aprile 1945. 

Oltraggio alla lapide dei Partigiani, Domenico Bernori, Giovanni Paghini e Idelio Fantoni, le loro immagini strappate dal cippo che ricorda il loro sacrificio al Ronchetto sul Naviglio, Via Lodovico il Moro 187 Milano. La struttura è rimasta intonsa, e nessuna scritta ed ulteriore danno strutturale fanno pensare solo ad un furto, le cornici in bronzo ed ottone, antichi manufatti, forse servivano a qualcuno, oppure un misero guadagno per chi non conosce la storia, la povertà di chi non rispetta neanche la morte. Denunciamo l’accaduto alle forze dell’ordine, a tutti i Cittadini della zona, della città, ripristineremo a breve i supporti fotografici insieme al Municipio sei, aumenteremo ancor di più la nostra vigilanza verso i simboli della libertà e non smetteremo mai di chiedere l’applicazione della Costituzione, che anche questi tre ragazzi in una notte lontana ci regalarono.

Ivano Taietti e tutta la Sezione ANPI Barona Milano.









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La storia del Cippo: 

Ronchetto sul Naviglio in via Lodovico il Moro 187, al confine tra Milano, Buccinasco e Corsico, nella notte buia del 25 aprile 1945, le staffette in bicicletta provenienti da Corsico. Urlano: “stanno arrivando, sono tanti, arrivano dal Naviglio, arrivano da Vigevano, ci sono cavalli, camion e automobili, e davanti ci sono i fascisti, avvisate tutti”. Una quindicina di partigiani, stanchi, assonnati e male armati, corrono a perdifiato incontro al male. Ci sono solo prati, qualche albero, il Naviglio indifferente che scorre piano piano, il ponte lì davanti. E alle spalle la vecchia scuola. Poi solo buio e silenzio, ma in lontananza ecco le prime urla, i primi rumori di motore. Scoppia la prima bomba a mano e il cielo si riempie di lampi e tuoni, si spara con tutto quello che si ha, si urla con tutto il fiato in gola: “Maledetti, di qui non passate”. Arrivano i rinforzi, adesso sono quasi in ottanta a urlare, sparare, qualcuno è di là del ponte, e prende i nazisti di fianco. E la colonna si ferma, sullo spiazzo della vecchia “gabella” si odono i lamenti dei feriti. Il sangue comincia a gocciolare nell’acqua del Naviglio. Muoiono lì tra la prima erba di primavera, tra le prime stelle che annunciano la libertà, tre ragazzi: Domenico Bernori di anni 21, Giovanni Paghini di anni 18, Idelio Fantoni di anni 18, che dapprima ferito gravemente viene portato insieme ad altri feriti alla cripta della chiesa di Santa Rita, dove segretamente era stato allestito un punto di pronto soccorso per gli antifascisti. I padri Agostiniani oltre che nascondere armi e uomini, li nei sotterranei della chiesa prestavano la loro opera di conforto medico da parecchi mesi, aiutati da un giovane partigiano e studente di medicina: Mario Migliavacca, che divenne poi apprezzato medico condotto di zona, e che aveva appena finito di piangere la morte di suo fratello Francesco Migliavacca di 20 anni, fucilato dai fascisti al Giambellino l’8 aprile del 1945. Il Padre Agostiniano Luigi Binaschi della chiesa di Santa Rita, fu persino arrestato dalla Muti per la sua attività antifascista e incarcerato a San Vittore. Tre sono feriti gravi: Paolo Mignosi, Antonio Befana, e Scipione Grossi, che cerca scampo gettandosi nelle acque del Naviglio, nuotando fino all’altezza della cooperativa Ferrera, dove viene tratto in salvo e portato nella sua abitazione, non molto lontana, dove gli vengono prestate le prime cure. Oltre alle carcasse di diverse vetture blindate, sul luogo del tremendo combattimento rimangono i corpi senza vita di numerosi tedeschi, fra cui due ufficiali che comandavano la colonna.  I nazisti si ritirano, ritornano verso Corsico e tentano di entrare a Milano attraverso Cesano Boscone e Baggio. La colonna si smembra, le staffette hanno avvisato tutti, e in ogni via, ogni piazza i Partigiani aspettano i fascisti e i nazisti a suon di schioppettate. Appena entrati in città sono nuovamente attaccati, questa volta dalla 112a brigata Garibaldi, da gruppi della Matteotti e di Giustizia e Libertà. La Squadra volante “Aldo Oliva” al comando di Angelo Bornaghi, nome di battaglia “Gianni”, che nei giorni dell’insurrezione svolse anche il ruolo di responsabile della squadra a “guardia  del corpo” di Sandro Pertini, incontra un nutrito gruppo di nazi- fascisti, tra il ponte di via Valenza e via Lombardini. Un nutrito lancio di bombe a mano uccide tutti i cavalli degli ufficiali nazisti e forma un’impenetrabile barriera che non permette alle autovetture blindate di passare oltre. Numerosi fascisti e nazisti sono catturati e condotti alla prigione segreta di via Binda, nei sotterranei dell’azienda ESPERIS. Saranno poi consegnati agli anglo-americani nei primi giorni di maggio.  Sul luogo della battaglia e dove i tre Partigiani morirono per regalarci la Liberta. Un cippo ad eterna Memoria, ricorda Idelio Fantoni, Giovanni Paghini e Domenico Bernori.   -  “Comunisti caduti in azioni contro i nazifascisti in fuga il 25/4/1945. I compagni della 113a Brigata Garibaldi e il popolo si inchinano di fronte al loro martirio voluto per la libertà d’Italia”.  

Idelio Fantoni. 1927- 1945.  Nato a Milano il 14/9/1927, figlio di Antonio e residente in viale Famagosta 2, lavorava alle Officine Tallero. Appartenente alla 113a Brigata Garibaldi SAP, è stato insignito della Medaglia di Bronzo e riconosciuto con Diploma Alexander 227347. Va evidenziato il fatto che Idelio cresce nelle case popolari intorno a Piazza Miani (allora si chiamava Piazzale Predappio) dove, insieme ad altri ragazzi, comincia in maniera autonoma a svolgere piccole azioni (scritte, volantini, ecc...) contro il fascismo e l’occupazione tedesca. Entreranno presto, con altri partigiani, a far parte del primo nucleo dell’8° Distaccamento Barona della 113a Brigata Garibaldi. Oltre al Cippo, una lapide lo ricorda dove abitava, in viale Famagosta. 

Giovanni Paghini “Spartaco”.  1927-1945.  Nato a Opera (MI) il  5/5/1927, da Santo e Maria Modesti, risiedeva in via Chiesa Rossa 113. Milano. Operaio nella fonderia Stabilini, apparteneva alla 113a Brigata Garibaldi SAP. Diploma Alexander 227353. Una lapide lo ricorda anche dove abitava. 


Domenico Bernori. 1924 - 1945.  Nato a Milano il 20/3/1924, da  Luigi e Angela Panigada, abitava in via Neera 11. Milano.  Di professione meccanico, apparteneva alla 113a Brigata Garibaldi SAP. Medaglia di Bronzo per attività Partigiana, una lapide lo ricorda anche dove risiedeva.  





 

17 febbraio 2021

I fascisti... Italiani brava gente. - Il 19 febbraio del 37...

I fascisti... Italiani brava gente. - Il 19 febbraio del 37... 
La strage compiuta dagli italiani, civili e militari, sulla popolazione inerme di Adis Abeba costituisce uno degli esempi più brutali della sanguinosa storia della dominazione coloniale in Africa. E una delle più criminali imprese realizzate dai nostri concittadini nella già vergognosa occupazione dell’Etiopia. Alla fine della Seconda Guerra Mondiale il governo etiopico riferì che erano stati massacrati 30.000 cittadini nella strage di Adis Abeba [1]. Tra le testimonianze italiane di quell’orrore, iniziato il 19 febbraio 1937, c’è quella di Antonio Dordoni:
«Nel tardo pomeriggio, dopo aver ricevuto disposizioni alla “Casa del Fascio”, alcune centinaia di squadre composte da camice nere, autisti, ascari libici, si riversarono nei quartieri indigeni e diedero inizio alla più forsennata “caccia al moro” che si fosse mai vista. In genere davano fuoco ai tucul e finivano a colpi di bombe a mano quelli che tentavano di sfuggire a i roghi […]. Molti di questi forsennati li conoscevo personalmente. Erano commercianti, autisti, funzionari, gente che ritenevo serena e del tutto rispettabile. Gente che non aveva mai sparato un solo colpo durante tutta la guerra e che ora rivelava rancori ed una carica di violenza insospettata».

Nel 1935, l’Italia, già detentrice di tre colonie in Africa – la Somalia, l’Eritrea, che era stata una regione dell’Impero Etiope, e la Libia, decise che era arrivato il momento di invadere l’Etiopia. Mussolini voleva dare agli italiani «un posto al sole», della terra da colonizzare e un vero e proprio impero coloniale. Così, il 3 ottobre 1935, senza far precedere l’attacco da una dichiarazione di guerra, si era scagliato contro l’impero etiope. Aveva rovesciato un’onda immensa di orrore sulla popolazione di quello stato, che, dal 1923, faceva parte della Società delle Nazioni e che, insieme alla Liberia ed era l’unica porzione di Africa non soggetta alla dominazione europea. Pur facendo da subito ricorso anche ai gas tossici (iprite) banditi dalla Convenzione di Ginevra del 1925, le truppe italiane, dopo 7 mesi, non erano riuscite a sottomettere totalmente gli etiopi. Ma il 5 maggio del 1936 il maresciallo Pietro Badoglio riusciva ad entrare in Adis Abeba senza combattere. L’imperatore etiope Hailè Selassiè, tre giorni prima, l’aveva abbandonata, andando in esilio. E il 9 maggio Mussolini annunciava dal balcone di Palazzo Venezia alla folla esultante che «i territori e le genti che appartennero all’impero d’Etiopia sono posti sotto la sovranità piena e intera del Regno d’Italia». Era una menzogna, ovviamente. Come era menzognera e grottesca nella sua pretesa solennità quanto scriveva Raffaele Carrieri, il 17 maggio, su L’illustrazione italiana: «Dopo quindici secoli Mussolini ha ridato a Roma il suo impero immortale».

In realtà, gli etiopi erano tutt’altro che sottomessi e l’Etiopia tutt’altro che occupata. Due terzi del suo territorio restavano liberi. E 100.000 uomini dell’esercito imperiale etiope erano ancora ancora attivi. Di fatto, i 10.000 soldati italiani installati ad Adis Abeba erano sotto assedio [2].
Tra il 5 e l’8 luglio di quel 1936, Benito Mussolini ordinava espressamente, per iscritto, mediante telegramma, al nuovo viceré, governatore generale e comandante delle truppe d’Etiopia, Rodolfo Graziani, di uccidere tutti i ribelli già catturati, di ammazzare i resistenti, facendo ricorso ai gas, e di attuare una politica di terrore e sterminio [3]. Ma le esecuzioni sommarie, le rappresaglie con i gas (60 tonnellate di bombe caricate a iprite e fosgene), gli incendi di interi villaggi, chiese incluse, le deportazioni di massa,
Mussolini era impaziente. Autorizzava a «condurre sistematicamente la politica del terrore e dello sterminio contro i ribelli e le popolazioni complici. Senza la legge del taglione al decuplo non si sana la piaga in tempo utile. Attendo conferma».
Il fatto è che il duce aveva promesso al popolo italiano che l’immenso territorio etiope sarebbe diventato rapidamente una colonia di ripopolamento, in cui avrebbe insediato da 1 a 10 milioni di italiani. Nei cinque anni di occupazione fascista, invece, si stabilirono in Etiopia solo 3.500 famiglie, su appena 114.000 ettari. Gli etiopi, pur divisi tra loro, non si rassegnavano a cedere le loro terre a questi sanguinari invasori. Nella capitale etiope la situazione era tesissima. Gli etiopi piangevano per i loro cari uccisi dagli italiani, pregavano per famigliari e vicini finiti nelle prigioni italiani ed erano in ansia per quei giovani che, per ordine di Mussolini, fin dal 3 maggio, dovevano essere presi e fucilati sommariamente [4]. Due giovani studenti di origine eritrea (Abraham Dobotch e Mogus Asghedom), con l’aiuto di un tassista, Semeon Adefres, il 19 febbraio del ’37 realizzarono l’attentato che avevano preparato [5]. In occasione di una cerimonia per la nascita del primogenito del principe Umberto di Savoia, i due eritrei, si introdussero di nascosto nel palazzo del piccolo Ghebì. Dalla balconata, scagliarono otto bombe di limitato potenziale tipo Breda, sul vicerè Graziani e sulle autorità italiane ed etiopiche, che gli stavano attorno sulla scalinata sottostante il balcone. L’esito fu di sette morti e circa 50 feriti, tra cui lo stesso Graziani, trafitto da 350 schegge [6]. Il federale fascista di Adis Abeba, Guido Cortese, obbedendo ad un telegramma di Mussolini, di provvedere ad «un radicale ripulisti», provvedeva alla rappresaglia: un massacro raccapricciante per le strade e nelle case etiopi di Adis Abeba.«Inutile dire che la rappresaglia si compie su gente ignara e innocente» Così raccapricciante che il giornalista Ciro Poggiali nel suo diario segreto scriveva:
«Tutti i civili (italiani) che si trovano in Adis Abeba hanno assunto il compito della vendetta, condotta fulmineamente coi sistemi del più autentico “squadrismo fascista”. Girano armati di manganelli e di sbarre di ferro, accoppando quanti indigeni si trovano ancora in strada […]. Inutile dire che la rappresaglia si compie su gente ignara e innocente» [7].

Accanto a quella condotta dai civili italiani contro la popolazione inerme (che era anche derubata dei pochi denari e averi che possedeva), veniva svolta anche quella, appena più organizzata, dei militari. Questi rinchiudevano 4.000 etiopici in improvvisati campi di concentramento e incendiavano i vasti agglomerati di tucul che fiancheggiavano due fiumi che attraversavano la città. La mattina dopo Alfredo Godio osservava «cumuli di cadaveri bruciati» e il transito di camion «sui quali erano accatastati, in un orribile groviglio, decine di corpi di abissini uccisi».
«Per tre giorni durò il caos. Per ogni abissino in vista non ci fu scampo in quei terribili tre giorni in Adis Abeba, città di africani dove per un pezzo non si vide più un africano», scrisse un altro testimone italiano, Dante Galeazzi.
Saputo che i diplomatici stranieri, con le loro macchine fotografiche, documentavano le atrocità in corso, il viceré Graziani, dal suo letto di ospedale, ordinava la cessazione delle rappresaglie [8]. Quelle dispiegate dai civili e dalle camicie nere, quindi, furono interrotte dalle ore 12 del 21 febbraio. Non si fermò, però, il bagno di sangue [9].
Mussolini, infatti, scrisse a Graziani che nessuno dei fermati attuali o venturi doveva essere rilasciato senza suo ordine, mentre «tutti i civili e i religiosi etiopi sospetti devono essere passati per le armi e senza indugi».
Il 22 febbraio Graziani scriveva a Mussolini: «In questi tre giorni ho fatto compiere nella città perquisizioni, con ordine di passare per le armi chiunque fosse trovato in possesso di strumenti bellici, che le case relative fossero incendiate. Sono state, di conseguenza, passate per le armi un migliaio di persone e bruciati quasi altrettanti tucul» Poiché l’avvocato militare Bernardo Olivieri aveva riferito, falsamente, che l’attentato a Graziani era stato ordito da un vasto complotto in cui avrebbero avuto un ruolo fondamentale i cadetti della Scuola militare di Olettà (mentre, in realtà, era stato compiuto da due studenti eritrei, con l’aiuto di un tassista), il 21 febbraio il viceré riferì a Mussolini: «Duce, questa mattina sono stati passati per le armi 45 fra notabili e gregari risultati colpevoli manifesti dell’attentato del 19 febbraio» [10]. Il 22 febbraio venivano assassinate altre 26 persone. La logica era quella di eliminare i giovani ufficiali, gli ancor più giovani laureati negli Stati Uniti, in Francia e in Gran Bretagna, nonché gli alti funzionari governativi e i collaboratori più validi dell’imperatore Hailè Selassiè. Per liquidare la classe dirigente etiope, Mussolini approvò la proposta di Graziani di deportare in Italia i notabili ancora imprigionati dal 19 febbraio nei sotterranei del palazzo del viceré [11]. Così in due tranche furono deportati in Italia, sull’isolotto dell’Asinara, 400 aristocratici etiopi, inclusi alcuni bambini e delle donne. Mentre quelli di livello inferiore erano rinchiusi nei campi di concentramento di Nocra, in Eritrea, e di Danane, in Somalia. La metà sarebbe morta di malattia o di denutrizione [12]. Il Gran Consiglio Fascismo nella seduta del 2 marzo espresse la sua piena approvazione per i massacri perpetrati. Il comunicato, pubblicato anche sul Corriere della Sera del giorno dopo, diceva:
«Il Gran Consiglio del fascismo ha infine inviato un cameratesco saluto e un fervido augurio al viceré maresciallo d’Italia Rodolfo Graziani, nella certezza che egli saprà applicare la giusta, ma inflessibile legge di Roma, e ha tributato un particolare elogio ai fascisti e agli operai italiani di Addis Abeba per il contegno da essi tenuto dopo l ’attentato» [13]. Il peggio per gli etiopi doveva ancora arrivare.

Alberto Quattrocolo in Me.Dia.Re.  http://www.me-dia-re.it/la-strage-di-adis-abeba-una.../ 


[1] La stampa americana, francese e inglese dell’epoca parlava di circa 6.000 etiopi uccisi ad Adis Abeba dal 19 al 21 febbraio 1937. Angelo Del Boca stima circa in 3.000 le vittime dei primi tre giorni di violenze ad Addis Abeba, come l’inglese Anthony Mockler. Lo storico Giorgio Rochat ipotizza che la cifra potrebbe essere più alta e arrivare a 6.000 vittime, come farebbero pensare le carte del “Fondo Graziani”.
[2] Badoglio, conoscendo la rischiosità delle situazioni si faceva richiamare in Italia, lasciando il posto al più giovane e ambizioso maresciallo d’Italia Rodolfo Graziani, che il 20 maggio veniva nominato viceré d’Etiopia, governatore generale e comandante superiore delle truppe.
[3] Graziani non aveva alcuna riserva nel dare esecuzione a tali ordini. La sua disponibilità al massacro si era già palesata eloquentemente in Libia.
[4] «Siano fucilati sommariamente tutti i cosiddetti giovani etiopici», aveva ordinato il duce, riferendosi a quelli che l’imperatore Hailè Selassiè, negli anni precedenti l’invasione italiana, aveva mandato a studiare e a laurearsi all’estero e ai cadetti della scuola militare di Olettà.
[5] I due eritrei lavoravano negli ambienti governativi di Addis Abeba, anzi erano informatori dell’Ufficio Politico di Graziani. Proprio per questo, oltre che per la fama di collaborazionismo che avevano gli eritrei in genere, non avevano contatti con i notabili abissini né con i “giovani etiopici”.
[6] Subito dopo, i due studenti, approfittando del caos, raggiungevano il taxi di Semeon Adefres e si dirigevano verso la città conventuale di Debrà Libanòs. Poi da lì tentavano di fuggire in Sudan, venendo, però, misteriosamente uccisi nel viaggio. Mentre l’autista, arrestato, veniva torturato a morte dagli agenti dell’Ufficio Politico di Adis Abeba.
[7] Non sfuggiva alla violenza omicida neppure la chiesa di San Giorgio (costruita ai tempi di Menelik da un ingegnere italiano, Sebastiano Castagna), che veniva data alle fiamme e dentro la quale i civili italiani volevano far bruciare vivi, spingendoceli a scudisciate, una cinquantina di diaconi. Fu solo l’intervento di un colonello dei granatieri ad impedire questo ulteriore crimine.
[8] Graziani decise di arrestare i massacri anche, se non soprattutto, per dimostrare a Mussolini di avere in mano la situazione – malgrado le ferite che lo trattenevano in ospedale (aggravate da una polmonite provocata dall’anestesia a etere) – e per impedire che il federale Cortese acquistasse troppa notorietà.
[9] Il federale Cortese, allora, faceva diffondere un manifesto con il bollo della “Federazione dei fasci di combattimento” di Adis Abeba che iniziava così: «Camerati! Ordino che dalle 12 di oggi 21 febbraio XV (cioè quindicesimo anno della “rivoluzione fascista”, NdA) cessi ogni e qualsiasi atto di rappresaglia». Riguardo a quell’ordine Dordoni scrisse: «Lo lessi e lo rilessi. Non credevo ai miei occhi. Non credevo che dopo una simile strage si potessero mettere in giro documenti del genere, che erano una palese autodenuncia».
[10] Il tenente colonnello Princivalle suggerì a Graziani di mostrare una certa clemenza verso i notabili che avevano collaborato con il governo italiano, per «non ingenerare la convinzione che noi trattiamo allo stesso modo coloro che ci servono e coloro che ci tradiscono». Ma Graziani, seguendo il criterio base della rappresaglia, per il quale del gesto di uno deve pagare tutta la comunità cui appartiene, continuò nella sua spietata politica repressiva. Così rispose, per iscritto, a Princivalle, il capo del suo Ufficio politico: «fatti del genere si reprimono non solo colpendo gli esecutori, ma colpendo la collettività nella quale è sorta l’idea e nella quale vivevano i colpevoli».
[11] Mussolini approvò tale idea, dopo aver respinto la proposta di Graziani di distruggere tutta la parte di Adis Abeba abitata dagli etiopi e deportarne gli abitanti in campi di concentramento. Scrisse Graziani: «Debbo pertanto giungere alla decisione di proporre di radere al suolo la vecchia città indigena e accampare tutta la popolazione in un campo di concentramento fino a che essa non si sarà ricostruita le sue abitazioni. Ne faccio pertanto formale proposta mentre mi riservo rimettere i preventivi dei teli da tenda necessari e tutto il resto[…]. D’altra parte io non posso mitragliare in massa o dare alle fiamme l’intera città, non potendo non preoccuparmi delle ripercussioni all’estero. Invoco pertanto che tutti provvedimenti proposti siano approvati perché possa darvi immediata attuazione. Prego massima urgenza risposta per non tenere più questo puzzolente carnaio [i duecento notabili arrestati] ammassato nei locali del governo generale». Il duce replicò a Graziani che ciò «solleverebbe nel mondo una impressione sfavorevolissima e non raggiungerebbe lo scopo».
[12] Diversi esponenti abissini di provata fedeltà, dopo essersi congratulati con Graziani per lo scampato pericolo, gli consigliarono moderazione nelle rappresaglie per non alienare al dominio italiano le simpatie della popolazione. Graziani interpretò il loro atteggiamento come una prova della loro collusione con gli attentatori e ne ricambiò i cortesi consigli facendoli deportare in Italia.
[13] Lo stesso giorno Starace in un telegramma scriveva al federale Cortese di Adis Abeba: «Mi compiaccio moltissimo con te e con i fascisti tutti». Interessanti sono anche i comunicati dell’agenzia Stefani sulla stampa quotidiana del 22 febbraio («squadre di fascisti hanno ripulito quartieri sospetti della capitale») e del 24 febbraio (tutti gli indigeni «trovati in possesso di armi sulla persona e nei loro tucul sono stati fucilati»).
Fonti:
Angelo Del Boca, L’attentato a Graziani, in Gli italiani in Africa Orientale – 3. La caduta dell’Impero, Mondadori, Milano, 1996, in http://www.italia-resistenza.it/.../RAV0053532_1998_211...
Angelo Del Boca, Italiani, brava gente? Neri Pozza, Vicenza, 2014
Angelo Del Boca, Il colonialismo italiano tra miti, rimozioni, negazioni e inadempienze, in “Italia contemporanea”, settembre 1998, n. 212
Matteo Dominioni, Lo sfascio dell’impero. Gli italiani in Etiopia 1936-1941, Editori Laterza, Roma-Bari, 2008
Giorgio Rochat, Le guerre italiane in Libia e in Etiopia dal 1896 al 1939, Gaspari Editore, Udine, 2009
Giorgio Rochat, L’attentato a Graziani e la repressione italiana in Etiopia nel 1936-1937, in “Italia contemporanea”, 1975, n 118, pp. 3-38. in http://www.italia-resistenza.it/.../RAV0053532_1975_118...



16 febbraio 2021

Chi era Piero Gobetti?

Chi era Piero Gobetti? 

19 giugno 1901 Torino. Assassinio 15 febbraio 1926 Parigi Francia. Qui in foto con il suo amore Ada, chi va a Parigi passi a trovarlo al Cimitero del Perè-Lachaise.

https://www.anpi.it/donne-e-uomini/761/piero-gobetti



08 febbraio 2021

La Lapide di Adriano Pogliaghi.

Ci fa rabbia, ci indigna ogni lapide martoriata, perché aggiunge oltraggio allo strazio di quelle morti ingiuste ma eroiche.
Ci fa bollire il sangue nelle vene perché l'odio continua ad essere il motore di queste azioni, un odio che viene tramandato, propagandato da gente meschina a gente ignobile.
Ma pensate forse di intaccare così il loro ricordo? Pensate forse che la nostra memoria diminuisca? Credete forse di spaventarci?
Il ricordo diventa ogni volta più grande, la nostra memoria ogni volta più solida e il nostro coraggio sempre più forte.
E non è retorica ma un dato di fatto: voi spaccate una pietra, noi raccontiamo chi era il nome su quella pietra e se qualcuno ancora non conosceva la sua storia ora la scoprirà e si aggiungerà a noi che già ricordiamo.
Questa volta è toccato ad Adriano Pogliaghi, un ragazzo ucciso a Mauthausen a soli 22 anni. Un uomo coraggioso che entrò nel movimento socialista clandestino fin dal novembre 1943, senza temporeggiare, pronto a cacciare gli invasori nazisti e a distruggere la dittatura fascista.
Un uomo forte, così tanto da riuscire a divellere un binario dei tram durante i grandi scioperi del marzo '44, insieme ad altri compagni.
Fu proprio questa azione la causa del suo arresto che viene tramutato in arruolamento forzato nella Marina avendo lui obblighi di leva. Ma Adriano non vuole combattere per i nazifascisti. Scappa e torna a Milano a lottare con le squadre giovanili Socialiste.
La lotta comporta rischi. Questo Adriano lo sa bene. Viene arrestato nuovamente e, dopo in breve ma duro periodo a San Vittore, viene inviato a Mauthausen dove sarà ucciso poche settimane prima della liberazione del campo.
Nessuno di coloro i quali ha dato fuoco alla corona e danneggiato la lapide per Adriano vale anche soltanto un'unghia di questo Partigiano...eppure lui ha combattuto anche per la loro libertà.
Ma i grandi si sa, sono sempre magnanimi specie verso i vigliacchi. 
- Lapide di Via Segneri 8 nel quartiere Giambellino in Milano.



ANPI Barona 2021... Caro Socio, cara Socia.

Cara Socia, caro socio. Ringraziandoti per la tua attenzione e per il tuo sostegno anche in questo difficile momento sospeso, ti informiamo che oltre; bonifico e spedizione postale, la tessera ANPI 2021 si può ritirare anche in presenza presso l’edicola di Nicola, Viale Cogni Zugna, angolo Via Solari, di fianco al Cinema Orfeo in Milano tutte le mattine, il costo è rimasto quello dell’anno passato, euro 19. Speriamo inoltre al più presto di poter riaprire anche la Sezione il mercoledì sera, oppure la domenica mattina, ma in tal caso ve ne daremo immediata comunicazione. Nel frattempo abbiamo implementato la nostra comunicazione virtuale, oltre il nostro storico Blog:https://anpibarona.blogspot.com  - la pagina Facebook: https://www.facebook.com/ANPIBaronaMilano - la pagina Instagram: anpi_barona_milano - la pagina Twitter: @AnpiBarona - L’indirizzo di posta via email ufficiale è sempre: anpibarona@fastwebnet.it e il nuovo numero telefonico della Sezione è: 351 7994902.   Esiste anche una lista Broadcast Whatsapp, su cui solo con una vostra richiesta possiamo inserirvi per  ulteriori comunicazioni. (Richieste via email).  Da come leggete i percorsi comunicativi e i contatti tra noi sono da sempre “sale” necessario ed utile, i ragionamenti sono sempre aperti, non abbiate timore a chiedere, proporre, intervenire, NOI ci siamo, ancor più quest’anno che sarà un anno particolare... tutta ANPI sta lavorando ai Congressi che si tengono ogni 5 anni, Congressi di Sezione prima, poi Provinciali ed infine del Nazionale. Ed anche noi ci stiamo preparando al nostro congresso, che se tutto andrà bene si terrà nel mese di maggio. Nuove idee, progetti, aspettative, nuovi Dirigenti... sono aperte le discussioni. ANPI c’è, NOI ci siamo.  - Il mio più forte abbraccio Resistente a tutti voi, a presto. Ivano Tajetti.                          

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