Milano ricorda ogni anno l’eccidio
avvenuto il 28 Agosto 1944 in via Tibaldi, dove un plotone della legione Ettore
Muti fucilò, dopo aver terribilmente seviziato, quattro partigiani appartenenti
al Gap Mendel: Albino Abico di 25 anni (Medaglia d’Argento al valor Militare),
Giovanni Alippi di anni ventiquattro, Bruno Clapiz di anni quarantuno, Maurizio
Del Sale di anni quarantasette. Abico, Alippi e Del Sale facevano parte di un
gruppo costituitosi nella primavera del 1944 a Baggio. Successivamente i tre
presero contatto con i Gap di Ruggero Brambilla (Nello) e trasportarono un
carico d’armi in Val d’Ossola dove rimasero qualche giorno presso l’85a brigata
d’assalto Garibaldi. Quando ridiscesero, con loro c’era anche Bruno Clapiz. In
Milano formavano così il Gap distaccato della 85a brigata, in collegamento e
alle dipendenze di Brambilla, con il compito di contribuire ad approvvigionare
del necessario la brigata di montagna. Riportiamo, di seguito, la
testimonianza, tratta dalle carte ANPI di Milano, di un negoziante di Tibaldi che assistette a quel tragico episodio. Seviziati dalla Muti i patrioti di
Porta Ticinese “Il rione popolare di Porta Ticinese aveva fama di essere un
covo di “ribelli” ed i fascisti non osavano tentare pattugliamenti isolati e
rastrellamenti se non in forze e con i fucili spianati. Così molti partigiani,
anche quelli di altre zone e della periferia, sicuri della solidarietà di tutti
gli abitanti che ad essi davano appoggi e trovavano nascondigli, venivano a
finire a “Porta Cicca”. Un gruppo di patrioti (che dopo la liberazione seppi
appartenevano alla 113° e 114° Garibaldi) usavano nascondere le loro armi in
una osteria che allora si trovava in via Tibaldi 26, per riprenderle quando
dovevano compiere qualche azione. Il 10 agosto 1944 era avvenuto l’eccidio di
piazzale Loreto che provocò sdegno in tutti, ma suscitò anche una certa
impressione. Ed ecco che una quindicina di giorni dopo, mentre le camicie nere
e complici andavano tronfi di avere compiuto tanto massacro, nelle vie centrali
di Milano, Piazza Duomo, Via Orefici, Piazza Cordusio, Via Dante, una macchina
ebbe l’ardire di percorrerle lanciando manifestini invitanti alla Resistenza,
alla rivolta, additando all’odio e al disprezzo i nazifascisti. Nella mattina
del 28 agosto 1944 avevo notato che circolavano certe brutte facce e mi ero
ripromesso, appena mangiato, di recarmi all’osteria per passare la voce di
stare in guardia. Quando però vi giunsi appresi che alle 13 un forte nerbo di
fascisti si era presentato e, sorpresi quattro giovani, li avevano arrestati.
Un quinto, al momento dell’arresto, si trovava nel cortile del caseggiato e
miracolosamente così fu salvo. Gli arrestati erano proprio i quattro che
avevano percorso le vie della città lanciando manifestini. Immaginarsi il gran
parlare di tutto il rione, le discussioni e persino si accennò a delazione di
una spia. Fatto sta che verso le 18,30 di quel giorno, automezzi carichi di
quelli della milizia invasero via Tibaldi e vie adiacenti: mitra imbracciati e
rivoltelle in pugno fecero chiudere tutti i negozi, i passanti costretti ad
entrare nei portoni subito sprangati; minacce a coloro che erano alle finestre
e ordine di chiuderle. Dapprima un po’ di confusione, un fuggi fuggi generale,
qualche strillo di donna, poi tutto cadde nel silenzio, un silenzio di morte;
il grande viale deserto e i fascisti che scrutavano da ogni parte accennando a
sparare. Anch’io avevo dovuto abbassare la saracinesca del negozio, ma da una
fessura potei assistere a quanto stava avvenendo e ritengo di essere stato uno
dei pochissimi che poterono osservare l’orrendo eccidio. Pochi minuti dopo la
milizia era divenuta padrona della strada deserta, vidi giungere un camion, dal
quale fecero scendere i quattro arrestati. Dovettero sorreggerli, tanto erano
stati seviziati, che non riuscivano a fare un passo. Furono allineati al muro,
anzi appoggiati contro il muro dell’osteria, con il viso rivolto verso gli
assassini. Non vi fu alcuna lettera di sentenza, una decina di brigatisti neri
che avevano in testa un berretto rotondo comandati da uno che aveva dei gradi,
imbracciarono i mitra a non più di tre metri di distanza. All’ultimo momento,
quando il comandante ebbe ordinato il fuoco, uno degli arrestati trovò la forza
di voltare il viso contro il muro e farsi il segno della croce. Bastò una sola
scarica, data la breve distanza e caddero. L’ufficiale si avvicinò ai corpi
straziati sferrando dei calci, notò che qualcuno respirava ancora. Si fece dare
da uno dei carnefici un mitra e nuovamente sparò sui morti. Dopo risalirono sul
camion e partirono. Dai cortili, le scariche avevano impaurito gli inquilini,
si udivano pianti e grida. Gli altri fascisti che avevano presidiato la strada,
permisero che fossero riaperti negozi e portoni, si raggrupparono, armi alla
mano, nei pressi del mucchio dei cadaveri, impedendo di avvicinarsi. I martiri
furono lasciati sul marciapiede arrossato di sangue che a piccoli rivoli
scendeva fin sulla strada. Rimasero al sole di agosto con le mosche che
ronzavano, fra lo sbigottimento, l’orrore, l’odio che aumentava sempre più,
sino a sera inoltrata.”
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