Il partigiano “Arturo” che portò i corpi di Mussolini e della Petacci a Piazzale Loreto
La scomparsa di Giacomo Bruni, passato alla storia per aver guidato fino a Milano il camion Fiat 634 con i cadaveri del duce, della sua amante e dei gerarchi fucilati a Dongo. Ma “Arturo” ricordava soprattutto le atrocità della Sicherheits Abteilung, un nome tedesco per una banda di fascisti italiani. Della terra buona dell’Oltrepò pavese, circondata da colline e boschi di querce e castagni, Giacomo Bruni, aveva l’aspetto. Condivideva con la gente contadina di Zavattarello, dove era nato ed era tornato subito dopo la fine della guerra, il carattere schivo, riservato e insieme fiero. Saldamente convinto della necessità di testimoniare gli orrori del nazifascismo, non si era sottratto al racconto, anche della missione “più delicata”. Senza farne mai però un’occasione di carriera, magari politica, nella lunga stagione del dopo: in molti gli avevano “tirato la giacchetta”, il partigiano Arturo aveva sempre detto no, un no garbato ma deciso e coerente. Era cresciuto nei campi Arturo, come i suoi quattro fratelli maschi. Era nato il 10 febbraio 1922 a Perducco, un pugno di case sopra Zavattarello, una trentina di chilometri da Pavia. «La mia famiglia fu sempre molto religiosa – spiegava –. La nostra avversione al fascismo non ebbe mai basi ideologiche, eravamo stanchi delle continue guerre della dittatura fascista». Nel 1942 i fratelli Bruni ricevono la cartolina precetto, inaspettata perché sono orfani di padre e Cesare, il secondo, ha già combattuto in Etiopia. Invece sono arruolati tutti e quattro: Cesare viene spedito in Russia, dove finirà disperso; Giovanni e Guido sono arruolati come fanti e diverranno anche loro partigiani. Giacomo è inquadrato nella Divisione alpina Cuneense, pure lui destinato al fronte orientale, ma per le precarie condizioni di salute resta al reparto. L’8 settembre è a Laives, vicino Bolzano, e con il suo Reggimento combatte i tedeschi per tre giorni fino a quando, rimasti senza munizioni e ordini, i militari italiani sono costretti alla ritirata. Giacomo viene catturato dai nazisti a Vicenza, e imprigionato. Riesce a fuggire e tornare a casa attraversando il Po vestito da prete. Non si presenta in caserma dopo il bando Graziani e, per costringerlo, i militi delle brigate nere di Zavattarello arrestano sua madre. Così a marzo 1944 deve consegnarsi ed è arruolato nell’aeronautica repubblichina. Fugge di nuovo e si unisce alle prime formazioni partigiane, scegliendo il suo nome di battaglia: Arturo. Nel curriculum di combattente per la libertà, le fasi della lotta: prima nella banda del Greco (Andrea Spannoiannis), poi nella 87ª Brigata Garibaldi Crespi, comandata da Annibale Sclavi e Carlo Barbieri “Ciro”. Al principio ha in dotazione un fucile da caccia, altre armi non ci sono, e ci si arrangia. Con l’organizzazione si moltiplicano gli attacchi ai presidi repubblichini: durante un’azione Arturo è ferito dalla scheggia di una bomba. Si combattono i nazisti e i militi della famigerata Sicherheitabelung, un’unità autonoma di polizia italiana composta da infiltrati e delatori che conoscono il territorio e riferiscono direttamente ai nazisti. Comandata da Felice Fiorentini aveva esordito proprio a Zavattarello, uccidendo per rappresaglia quattro giovani del paese non partigiani. Poi arrivò novembre e i rastrellamenti della Turkestan, i famigerati “mongoli” che furiosamente uccidono, stuprano, incendiano il castello Dal Verme (ora è un Museo della Resistenza). Ancora una volta, la formazione di Arturo si riorganizza e riprende a combattere: ad aprile 1945 libera Voghera e Pavia e il 27 è a Milano. Ed ecco il racconto di Arturo sulla “delicata missione” a Dongo: «Il comandante Ciro mi scelse con altri undici della mia brigata per una delicata missione. Mi presentò Walter Audisio (Valerio) che ci venne assegnato, con Alfredo Mordini (Riccardo), quale nostro superiore per questo compito. All’alba del 28 aprile partimmo, io alla guida di un camioncino Fiat 121 con sopra gli altri partigiani e una Fiat 1100 con a bordo Valerio, Riccardo, Piero (Orfeo Landini) e altri. La mattina fu molto piovosa. Intorno alle ore 14 arrivammo nel piazzale di Dongo, sulla riva del lago di Como. Consumammo un frugale pranzo nel municipio. Nella sala comunale, per ordine del CLNAI, i più importanti gerarchi fascisti come Pavolini, Barracu, Zerbino e Mezzasoma, furono processati per alto tradimento e condannati a morte. Dopo aver ricevuto i conforti religiosi, verso le cinque del pomeriggio, furono schierati contro la ringhiera del lago e fucilati alla schiena dai partigiani della Crespi, ma anche dai patrioti locali. Non partecipai all’esecuzione. I cadaveri furono caricati nel cassone del camion Fiat 634. Arrivammo al bivio di Azzano e subito dopo giunse l’auto con Valerio, che portava nel sedile posteriore i cadaveri di Mussolini e di Claretta Petacci. Caricammo le due salme sul camion. Il duce indossava una camicia nera con uno stivale scucito dietro, mentre la sua amante indossava abiti eleganti. Voglio precisare, dopo tanti anni, che Mussolini fu giustiziato da Walter Audisio a Giulino di Mezzegra, come disposto dal CLNAI. Arrivammo intorno alle 4 del mattino del 29 a Milano, a Piazzale Loreto. Questo luogo venne scelto perché l’8 agosto del ’44 i nazifascisti fucilarono diversi partigiani ed oppositori del regime. Io e altri commilitoni tirammo i cadaveri giù dal camion e li depositammo in fila lungo un marciapiedi. Tantissimo era l’odio degli italiani contro Mussolini e i suoi gerarchi. Ricordo una vecchietta che voleva strappare gli occhi al duce. Noi la spingemmo indietro, lei prese del terriccio e lo lanciò sui cadaveri. Dovettero intervenire i vigili del fuoco con gli idranti per tenere alla larga la folla ed evitare il vilipendio delle salme». Arturo non c’era più a Piazzale Loreto quando i corpi di Mussolini, della Petacci e dei gerarchi vennero appesi al distributore. Era tornato al Comando dove da un emissario degli Alleati seppe di aver ricevuto in premio un maialino, per avere ben svolto il suo compito a Dongo. Non lo ritirò mai. Consegnò le armi e tornò a Zavattarello. Si rese solo disponibile, capace autista di camion, a riportare da Bolzano all’Oltrepò pavese i numerosi prigionieri italiani liberati dai lager in Germania. Continuò a vivere in pace come aveva sempre desiderato. Tirando dritto nonostante le minacce di morte dei fascisti, che fino a una decina di anni fa telefonavano a casa sua, assicurandogli che l’avrebbe pagata. Arturo se n’è andato il 17 ottobre 2016 all’età di 94 anni, non aveva più lasciato il suo paese natale dove viveva con una pensione di 500 euro al mese, comprensiva dei 15 euro assegnati per meriti di guerra. Per l’ultimo saluto, nella chiesa di San Paolo a Zavattarello, tutta la comunità locale e i compagni dell’ANPI si sono stretti alla moglie Rosa, ai sette figli, ai tanti nipoti e pronipoti. Il parroco don Leonard, di origini romene, nell’omelia ha parlato di Arturo «esempio da seguire, come quanti si sono sacrificati per la libertà di tutti e hanno tenuto fede ai propri ideali». Durante la messa Ivano Tajetti, Presidente della sezione ANPI Barona, ha voluto rievocare l’amico di sempre, il partigiano che aveva combattuto con suo padre: «Stanotte è sceso dal suo letto, ha preso lo sten che era lì sotto la giacca, si è infilato nel camion, acceso il motore e tranquillo, sereno, con il sorriso più bello del mondo è andato a fare il suo dovere senza indugi e perplessità: una cosa semplice, normale. Ora si aggira per le strade dell’Oltrepò Pavese, di Milano, lungo il lago tra Como e Dongo. I suoi Compagni cantano con lui Fischia il vento. C’è da fermare il fascismo, da difendere l’Italia. Gli alberi, le rocce, le genti regalano carezze. Si sente il profumo delle castagne, il sole sorge tra le vette dei monti, una farfalla si alza tra la rugiada nei campi. Piango! Stanotte ci ha lasciati Arturo, Giacomo Bruni. L’ultimo sopravvissuto di quei quindici ragazzi che a Dongo chiusero i conti con il fascismo. Abbruniamo le bandiere, chiudiamo un attimo gli occhi, sogniamo forte con lui, continuiamo a lottare per far sì che i suoi sogni diventino realtà. È morto un partigiano, è morto un uomo, è morto un mio amico, un mio Padre. Un pallido sole s’alza tra le colline dell’Oltrepò, una donna recita una preghiera, un bicchiere di vino rosso, due vecchi Partigiani si raccontano la loro gioventù; è una favola bellissima che mai dovrebbe finire. Ma gli occhi si chiudono e un sospiro sussurra: “state bene, nè!”. Fai buon viaggio Arturo. Io, stanne certo, camminerò sempre al tuo fianco, attraverso colline, montagne, strade e piazze di città. Il tuo sorriso mi indicherà la strada. Bella ciao, Arturo, non ti fermare, sento tossire un motore, un vecchio camion sbuca dalla nebbia e affronta la salita spinto dal vento». Poi gli abbracci nell’addio commosso e partecipe all’ultimo partigiano di Dongo.
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