Domenica 24 giugno la sezione Anpi Barona di Milano ha organizzato un viaggio della memoria sui sentieri dell’eccidio di Monte Sole, a cui hanno partecipato diverse sezioni Anpi Milano e Monza e Bagnacavallo. Giunti a San Martino, la sezione Anpi Marzabotto ha accolto i partecipanti con Ferruccio Laffi, uno dei pochi sopravvissuti alla strage nazifascista.
Profumo di tigli, cielo azzurro, sole, fiori di campo, il canto delle cicale. Pace.
La natura ha cercato di farsi piú bella in questi luoghi. Qui alle pendici di Monte Sole dove tra il 29 settembre e il 5 ottobre 1944 fu compiuta quella che viene considerata la piú efferata strage da parte dei nazisti delle SS sulla popolazione civile. Un’operazione pianificata, con lucida crudeltà i carnefici volevano radere al suolo questo territorio. Un territorio nel quale avevano la propria base i partigiani della brigata Stella Rossa-Lupo (nome del comandante Musolesi). Un territorio importante, ad un passo dalla Linea Gotica, dagli Alleati. Difficile peró da raggiungere per chi non era del luogo, infatti a guidare le SS fin su a San Martino, Casaglia, Monzuno furono militi fascisti locali. In 6 giorni, le truppe del maggiore Reder, comandante del 16° battaglione Panzer Aufklärung Abteilung della 16ª Panzer Granadier Division “Reichs Führer SS”, distrussero intere comunità. 115 luoghi, paesini, case sparse di mezzadri, vi abitavano perlopiú donne, bambini, anziani. Gli uomini erano al fronte, erano partigiani. Nessuno avrebbe potuto immaginare la crudeltà e la violenza che si perpetró in quei giorni. Ma non c’è nessun luogo sicuro in guerra. Neanche una Chiesa. I ruderi delle case e delle Chiese lo testimoniano ancora oggi. Il silenzio, il terrore, il pianto anche.
I numeri sono importanti quando si tratta di vite umane. È stato accertato che il numero delle vittime in quei giorni fu di 775, anche se non tutti i documenti sono stati ancora esaminati. Oltre ai numeri, ci sono le persone. Ci sono i bambini. Abbassarono il cavalletto delle mitragliatrici, perché a 150 cm non avrebbero colpito i bambini. E allora ci si chiede come questi soldati abbiano potuto vivere dopo quel giorno.Dopo aver rinchiuso innocenti in una chiesa o in una casa o in un cimitero e aver lanciato all’interno bombe, aver sparato ad altezza bambino, aver sventrato donne incinte, tagliato teste, squartato animali. Come si fa a vivere dopo? Cosa c’è stato nella loro vita, dopo?
Qui a Montesole dopo non c’è stato piú niente.
I pochi bambini sopravvissuti, perché avevano resistito sotto cadaveri per ore o perché erano riusciti a scappare nascondendosi nei boschi, non hanno più vissuto lì. Furono affidati a famiglie in città distanti da quel luogo. Interi paesi sono rimasti disabitati per decenni. Ferruccio Laffi, uno dei pochissimi sopravvissuti alla strage, in un pomeriggio a Colulla perse 14 familiari. Racconta con dolore, costanza e coraggio ciò che accadde in quei giorni. Per una sola ragione, perché la pace è il bene piú prezioso.
«Avrei tante cose da dire, ma mi blocco. Quando voglio parlare la parola non viene fuori… Devo aspettare un po’. Sono contento di vedervi qui oggi. Adesso sono un po’ arrabbiato, dentro di me, perché quelli che dovrebbero parlare stanno zitti. Io ho tanti anni, li conosco quelli che parlano loro e te devi stare zitto. Pensateci un po’ poi vedrete».
Ferruccio, ci puoi raccontare cosa ricordi di quei giorni? «In quei giorni io ero ragazzo, avevo 16 anni, qui sui monti c’era la brigata Stella Rossa. Io abitavo vicino Marzabotto, in campagna. Aiutavamo i partigiani, davamo loro da mangiare. Loro scrivevano su un biglietto la roba che prendevano. Le famiglie erano composte da 10/15 persone, che lavoravano la terra, vivevano di quello. C’era la miseria, ma ci si accontentava di poco. Quello che producevano lo mangiavano piano piano e lo mettevano via per l’inverno. A fine settembre eravamo già preparati, anche a casa mia avevamo fatto dei buchi per nascondere della roba. Si sentiva che avevano liberato Firenze, gli Alleati erano vicini. Allora si pensava che in una settimana saremmo stati liberi. Purtroppo non è stato cosi. Gli americani si fermarono a pochi km da qui. È successo che il 29 settembre hanno incominciato a cannoneggiare, a sparare qui intorno. A casa mia mi hanno detto di andare su ad avvisare i partigiani. Li c’era un gruppo di partigiani, il cui capitano era stato già ucciso. Mi dissero di nascondermi fino a sera e poi tornare a casa. Gli uomini cercavano di nascondersi, perché si pensava che sarebbero stati uccisi loro, non i civili. Invece hanno ucciso i vecchi, i bambini, le donne. C’erano squadre che cercavano chi c’era in giro, li raggrupavano e li uccidevano. Si son salvati pochi, alcuni bimbi solo perché hanno resistito sotto i cadaveri per ore. Il 29 sera a casa la mamma mi disse che erano passati i tedeschi, ma non era successo niente. Allora ci sembrò che fosse finita li. Perché c’erano stati altri ratrellamenti e duravano un giorno e poi il giorno dopo si mettevano a posto le cose. Invece noi noi non sapevamo che a Casaglia/ Creda etc avevano ucciso e bruciato le case. Il giorno dopo, la mattina eravamo andati a lavorare come sempre. A mezzogiorno eravamo tornati a casa a mangiare. Finito di mangiare vediamo dei tedeschi venire giù verso casa nostra. Allora gli uomini dissero che sarebbe stato meglio andare a nascondersi. Io mi sentivo un uomo, avevo 16 anni, quindi andai a nascondermi anche io. Andammo nel bosco a 200 metri da casa. Abbiamo sentito degli spari ma noi non vedevamo niente. Era il 30 settembre pomeriggio e non si sentiva piú nente. Poi siamo andati su e abbiamo visto la casa che bruciava, le bestie fuori, non c’era nessuno. Vai via da casa, stai via 2 ore torni e non trovi piú nessuno. Non erano stati solo uccisi, erano stati sventrati, uomini e animali squartati. Nell’aia ho visto un uomo nudo rannicchiato non lo riconobbi sembrava un bambino tanto era piccolo, era mio padre. Era una cattiveria. Si divertivano a fare del male, a sparare ai bimbi lanciati in aria, io non li ho visti, ma lo hanno raccontato alcuni testimoni. Io andavo a messa, ma da quel giorno non ci sono più andato».I fatti accaduti a San Martino di Caprara, Caprara e Casaglia
San Martino, 30 settembre 1944. I tedeschi arrivarono trovando le persone, per lo più donne e bambini, rifugiate in chiesa. Le fecero uscire, le ammassarono davanti una casa colonica vicina, poi le uccisero a colpi di mitraglia e dettero fuoco agli edifici. Caprara, 29 settembre 1944. Sette od otto soldati rastrellarono le persone nel rifugio, le misero in fila, le rinchiusero in una delle case del borgo, gettando quindi delle bombe da una finestra e dalla porta. Alla casa fu poi dato fuoco: c’erano circa settanta persone tra donne e bambini, e sopravvissero solo in otto.
Casaglia, 29 settembre 1944. La mattina erano transitati i partigiani che, incalzati dalle truppe tedesche, si stavano rifugiando su Monte Sole. Verso Casaglia si erano diretti anche molti civili, cercando rifugio in chiesa. Con i civili rimase il giovane parroco di S. Martino, don Ubaldo Marchioni. Era partito da S. Martino per recarsi all’oratorio di Cerpiano e celebrare la messa. Arrivato a Casaglia, passando da Caprara, trovò la chiesa già piena di gente, e si fermò con loro. Un gruppo di tedeschi entrò in chiesa e fece uscire le persone. È probabile che dentro la chiesa siano stati uccisi don Ubaldo Marchioni ed una giovane donna paralitica, Vittoria Nanni.
Nessuno fu interrogato dai tedeschi, che ordinarono ai prigionieri di uscire ed avviarsi verso Dizzola. La stessa strada porta anche al cimitero, distante poche centinaia di metri dalla chiesa: subito prima del cimitero vi è un bivio, e il sentiero sulla sinistra porta a Dizzola. Il gruppo degli ostaggi non imboccò mai quella strada: arrivati nelle vicinanze del cimitero, prima della deviazione per Dizzola, il gruppo, tutte donne e bambini, tranne un uomo di mezza età, fu fermato da un’altra pattuglia di tedeschi, composta, a seconda delle testimonianze, da 7 a 15 uomini. Colui che appariva il comandante li indirizzò verso il cimitero, ordinando ai suoi uomini di forzarne i cancelli di ferro. I tedeschi li fecero entrare, li raggrupparono davanti alla cappella, e montarono una grossa mitragliatrice su un treppiedi, armata da uno o due uomini che avevano nastri di cartucce attorno al corpo: cominciarono quindi a sparare. Anche un altro tedesco sparò con una grossa arma automatica. L’eccidio si compì in pochi minuti.Il processo al maggiore Walter Reder
Reder, catturato dagli inglesi a Salisburgo il 5 maggio 1945, fu consegnato all’Italia. Il processo, davanti al Tribunale militare di Bologna ebbe inizio il 18 settembre 1951 e terminò il 31 ottobre con la condanna all’ergastolo per le stragi della Toscana e per una parte di quelle bolognesi. Per Monte Sole fu riconosciuto colpevole della morte di 262 persone uccise a Casaglia, Cerpiano, Caprara, San Giovanni di Sopra, San Giovanni di Sotto, Cà di Bavellino e Casoni di Rio Moneta. Intanto il 17 ottobre 1945 a Brescia e il 30 settembre 1946 a Bergamo furono condannati i fascisti che fecero da guida alle SS durante l’eccidio. Il 30 aprile 1967 Reder – al quale la condanna era stata confermata in appello – inviò una lettera alla comunità di Marzabotto per chiedere il perdono. Con 282 voti – espressi dai cittadini di Marzabotto – il perdono non fu concesso. Appena 4 quelli a favore. Il 15 luglio 1980, a Reder, detenuto nel carcere di Gaeta, venne concessa la semilibertà, per essere poi rilasciato il 23 gennaio 1985. Rientrato in Austria, disse di non avere chiesto perdono e che la lettera era stata scritta dal suo avvocato. É morto il 2 maggio 1991. Il 16 aprile 2002 il Presidente della Repubblica tedesca Johannes Rau – accompagnato dal Presidente italiano Carlo Azeglio Ciampi – si è recato a Marzabotto e ha chiesto scusa in nome del popolo tedesco.
Emanuela Manco
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