Boldrini, il nostro generale «Bulow»
In ricordo d' Arrigo Boldrini, protagonista della Liberazione dal nazifascismo che riassumeva in sé il mondo resistenziale. Era il capo laico di quell'«altra Repubblica», quella dei partigiani, con un forte ruolo di istituzionalità ufficiale, così come Giovanni Pesce, morto pochi mesi fa, ne costituiva una specie di alter ego militante ed extra-istituzionale
Angelo d'Orsi - Il Manifesto 23/01/08
Lo incontrai una volta, Arrigo Boldrini, a un raduno della Federazione Internazionale dei Resistenti alla guerra. Era un uomo importante, in quel contesto; e fece una grande impressione, a me, che ero un ragazzo aspirante «giornalista-militante». Scambiammo qualche parola. Ero troppo giovane e inesperto di tutto per essere a mio agio, ma lui fu cordiale, pur in un'attitudine, che a me, pareva severa: era già un monumento vivente. Il suo nome, all'epoca, risuonava, tra aule parlamentari, agenzie di stampa, e, naturalmente, di tanto in tanto, sull'Unità, l'organo di quello che fu sempre il suo partito. Partecipava a tutte le cerimonie pubbliche: tutte quelle che meritavano. Era, in buona sostanza, una sorta di Presidente della Repubblica ombra: quella Repubblica dei Partigiani, dei Resistenti e degli Antifascisti che non ha mai goduto buona stampa, nella Repubblica istituzionale, che pure nacque soprattutto grazie a loro: prima delle volgarità e delle bestialità mercantili dei Pansa di turno, che ripropongono diuturnamente, rivedute e corrette, le infamie dei «nostalgici» alla Pisanò, c'erano state le persecuzioni giudiziarie ai partigiani, l'emarginazione sociale di chi pareva aver fatto parte o sostenuto i banditen, e, dunque, nel maccartismo all'italiana, varie forme persecutorie verso tutti coloro che militavano o simpatizzavano con i «socialcomunisti», come allora si diceva. Un mondo nella sua biografiaUn uomo come Boldrini rappresentava il capo laico di quell'altra Repubblica, con un forte ruolo di istituzionalità ufficiale; così come Giovanni Pesce, morto solo alcuni mesi prima di lui (che abbiamo commemorato su queste stesse colonne), ne costituiva una specie di alter ego militante ed extra-istituzionale. Erano la faccia politica, l'uno; militare, l'altro, della Resistenza. Il partigiano-politico Boldrini, che sapeva riassumere in sé, nella sua biografia e nelle sue doti personali, l'intero mondo resistenziale; e il guerrigliero romantico Pesce, che fu sino alla fine un giapponese pronto a continuare la battaglia nella giungla, fedele agli ideali sui quali, peraltro, anche Bulow, il comandante Boldrini, era rimasto fermo. Ma erano personalità diverse, che nella storia della lotta e in quella del dopoguerra avevano assunto fisionomie pubbliche e ruoli diversi. Accomunati, allora dagli ideali antifascisti, e comunisti; ora, a fine luglio scorso Pesce, in questa fine gennaio Boldrini, dalle loro uscite di scena, senza clamori. Chi può dare soverchio spazio a Boldrini (al di là delle frasi di circostanza, che stanno inondando le agenzie), davanti alle ultime news su Mastella e Cuffaro? Eppure, Arrigo Boldrini, classe Grande guerra (era nato a Ravenna il 6 settembre 1915) è stato un autentico padre della patria. Nemmeno per lui, come già per Giovanni Pesce, si trovò un capo dello Stato disposto a riconoscergli con il laticlavio, quei meriti speciali che danno diritto ad entrare tra i senatori a vita: ma abbiamo avuto, in compenso, Andreotti, Colombo, Cossiga, e, per onorare la famosa «società civile», l'industriale Pininfarina. Ma lui quei meriti li aveva. E, quasi a confermare quello che potrebbe sembrare un cliché - in realtà, a onorare una professione di vita che non ha bisogno di tamburi né trombe (e men che meno, tromboni) -, il comandante Bulow, fu uomo che unì al massimo della presenza, il minimo del presenzialismo. Passò alla storia come liberatore di Ravenna, la sua città - dove ieri è morto, in ospedale, dopo alcuni giorni di ricovero - era un figlio autentico della «generosa terra di Romagna». Di tradizione socialista, e internazionalista, fu un ribelle fin dalle prime esperienze scolastiche: espulso dal collegio della Scuola Agraria di Cesena, avendo poi acciuffato il diploma di perito agrario, fece regolarmente il servizio militare, come allievo ufficiale. E si trovò un modesto impiego nello zuccherificio Eridania, e poi a Napoli, in un centro per la lavorazione dei cereali. A Napoli, il che può apparire bizzarro per un romagnolo di tradizione rossa, entrato in rapporti di amicizia con Libero Bovio, semidimenticato poeta dialettale di grande valore, fu posto finalmente a contatto con ambienti antifascisti. Ma i tempi della lotta dovettero aspettare. Fu il richiamo alle armi (ne aveva avuto già uno, in precedenza), destinazione Jugoslavia e Albania, la sua guerra: una delle guerre più sporche degli italiani, che spiega in larga parte la questione foibe. Mentre era ospedalizzato, a Bari, convalescente, fu raggiunto dalla notizia della fatal notte del 25 Luglio '43: Mussolini arrestato per volere del Re (suo «cugino», che l'aveva onorato del «collare dell'Annunziata», massima onorificenza sabauda!), le sue statue che cominciavano ad essere abbattute, i fascisti volatilizzati, la Milizia per la Sicurezza dello Stato come se non fosse mai esistita... E, mentre il re cincischiava, e Badoglio assumeva la carica che era stata per vent'anni di Benito Mussolini, l'esercito cominciava a sbandare, paurosamente, pericolosamente. Come avrebbe di lì a poco dimostrato, in modo clamoroso quanto drammatico, l'8 Settembre. Da quel contadino che era, Arrigo tornò subito alle sue terre: iscritto, fin dall'agosto, al Pci, fu tra i primissimi a organizzare un gruppo di combattenti; scelto da uno che di guerra se ne intendeva, Luigi Longo, Boldrini seppe imporsi, in modo del tutto naturale, come un vero capo, nel senso gramsciano. Nasceva il comandante Bulow. La leggenda, che ha fatto scuola, vuole che il nome gli sia stato dato da un barbiere appassionato di storia, tale Michele Pascoli, che davanti a una lezione di tattica e strategia di Boldrini, lo avrebbe scherzosamente apostrofato con un «Ma chi sei, Bulow?», riferendosi al vincitore di Napoleone a Waterloo, il generale von Bulow. E lo stesso Pascoli (poi fucilato dai nazifascisti), avrebbe poi per così dire imposto quel nome di battaglia al compagno. Che se lo meritò tutto.Quel rischio calcolatoNon si contano gli episodi di eroismo, ma non all'insegna della temerarietà, piuttosto del rischio calcolato, che ne facevano davvero un generale di corpo d'armata. Quell'armata di straccioni che liberò, pezzo dopo pezzo, l'Italia, senza aspettare, inerte, la liberazione da recalcitranti e sospettosi «Alleati», ma, quando possibile, collaborando con loro. Scrisse Gian Carlo Pajetta, di Boldrini, che non era il soldato che «ha compiuto un giorno un atto disperato, supremo di valore»; non l'ufficiale che «ha avuto una idea geniale in una battaglia decisiva». Era, Bulow, uno stratega e una guida di uomini: il «compagno che ha fatto giorno per giorno il suo lavoro, il suo dovere». Era davvero il partigiano idealtipico, destinato a radunare sbandati, a trasformarli in combattenti consapevoli, e a condurli non allo sbaraglio, ma nella piena coscienza del rischio, alla guerra di liberazione. Il gruppo di uomini che ebbe intorno fu eccezionale, e molti persero la vita, a cominciare da Mario Gordini, a cui poi fu intitolata la Brigata di Bulow. Eroi, di cui anche nelle cerimonie del 25 aprile in questo Paese di smemorati avveduti e di memorialisti opportunisti, si è persa pressoché ogni traccia. «In» Roma e poi costituenteNon a caso toccò a lui, il comandante Bulow, guidare quella che fu la prima grande manifestazione in quella parte del territorio liberato dagli occupanti tedeschi e dai repubblichini. Nella Roma del febbraio '45, Bulow (che aveva ricevuto la medaglia d'oro dal comandante dell'VIII Armata, generale britannico McCreery, a Ravenna, pochi giorni prima), guidò uno straripante corteo che passò sotto il fatale balcone di Palazzo Venezia. Sfrattato il suo inquilino - che, a Salò, si fingeva pateticamente ancora come «il duce» degli italiani - quella marcia «in» Roma, volle cancellare la marcia «su» Roma di ventitre anni prima. Finita la guerra, Bulow ne rappresentò, come meglio non si sarebbe potuto, gli ideali e la continuità nella linea dell'antifascismo e per l'affermazione e la difesa della nuova legalità repubblicana, poi, dal 1948, certificata da una Costituzione alla cui stesura, come membro dell'Assemblea Costituente, egli prese parte. Così, mentre guidava degnamente l'Anpi (da presidente prima, e presidente onorario, prima di ritirarsi, negli ultimissimi anni, in un centro di ricovero, sempre nella sua terra), difese i valori, da deputato e da senatore, di quella Carta, che ancora oggi, mentre la celebriamo sui manifesti affissi per il 60°, è un documento ignoto ai più, e, quel che è peggio, «vecchio», e da mandare al macero, per molti esponenti del ceto politico. I quali fingono di non ricordare quel che tutti loro, e noi, a quel vecchio documento, nato dall'azione - culturale, politica e militare - di «vecchi» come Arrigo Boldrini, dobbiamo.
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