“Ora si smura” è un vecchio adagio toscano, ormai in
disuso. Lo sentivo ripetere spesso da quelli più grandi di me almeno una decina
d’anni, nei momenti di difficoltà politica ed economica del Paese, di gravi
problemi sindacali. Ma io, poco più che un ragazzo, non ne capivo il senso anche
se intuivo qualcosa di grave, di minaccioso.
“Ora si smura” dicevano quelli
più grandi me il 14 luglio del ’48 quando spararono a Togliatti e ripeterono la
stessa espressione quando l’Italia aderì al Patto Atlantico e quando la DC
tentò di fare approvare la “legge truffa” che introduceva il premio di
maggioranza nel sistema elettorale. Ma la legge non passò e non fu smurato
nulla.
“Ora si smura” ripetevano quelli
più grandi me alla Casa del Popolo di Rifredi, a Firenze, quando minacciarono
di chiudere la Pignone, prima, e la
Galileo, poi, e un lunghissimo corteo di operai e di impiegati delle due
fabbriche, di dipendenti di altre aziende, di cittadini, in testa il sindaco
Giorgio La Pira, attraversò la città. “Ora si smura” gridavano gli operai
quando carabinieri e polizia sbarrarono il passo al corteo e finì a sassate.
“Ora si smura” ripetevano quelli
più grandi di me nelle redazioni locali dei giornali di sinistra: l’Unità,
Paese Sera, l’Avanti che io, ormai giovanotto, bazzicavo.
Ma cosa significava
quell’espressione? cosa voleva smurare quella gente? Era una grave minaccia, intuivo, ma non
capivo quale. Cosa voleva dire quello “smurare”? Disintegrare, distruggere? Probabilmente sì. Forse volevano
distruggere il “palazzo”, pensavo e mi riecheggiavano in testa i versi di un
vecchio canto anarchico: “Daremo fuoco alle chiese e agli altari, distruggeremo
i palazzi reali….”
Mi vergognavo a chiedere ai più
grandi l’esatto significato di quell’adagio che sapeva un po’ di parola
d’ordine e anch’io presi a ripeterlo nei momenti di crisi perché mi rassicurava
il fatto che tutti quelli che lo dicevano con rabbia avevano un comune
denominatore: avevano fatto la Resistenza nelle Brigate Garibaldi o in
Giustizia e Libertà.
Poi, l’impegno quotidiano in un
giornale locale limitò moltissimo le mie frequentazioni dei circoli di
sinistra. L’acquisto di un’auto,
le domeniche in Versilia o all’Abetone, altre amicizie relegarono
quell’espressione in un angolino della memoria. Ma non fui il solo. Quando mi capitava di tanto in tanto di
tornare alla Casa del Popolo di Rifredi mi rendevo conto che, negli anni del
boom economico, troppe cose eran cambiate e con queste il linguaggio. Anche la
gente non era più la stessa. Dov’è il “Bigio”?. “Poverino, gl’ è morto”. “E Lallo?”. “E’ gl’ è all’ospedale, sta per tira’ i’ carzino”che in vernacolo
vuol dire in fin di vita. E con il Bigio e Lallo se n’era andato
qualcosa, se n’era andata la rabbia nell’esclamare: “Ora si smura”.
Poi l’adagio passò di moda e i
più non lo capivano. Una notte, in tipografia, dopo aver visto il titolo della
prima pagina , le reazioni di una certa destra ad un’ipotesi di governo di
centro-sinistra, mi venne da esclamare “ora si smura”: tutti mi guardarono con
aria interrogativa. Soltanto un vecchio linotipista si girò verso di me e mi
strizzò l’occhio.
Poi il lavoro mi portò a Roma:
altra gente, altro linguaggio. Diversi anni dopo, in gita a Firenze incontrai un vecchio amico. Rimpatriata in
una trattoria e poi la visita della casa che fu del nonno.
“Qui verrà il soggiorno, qui la
camera da letto, là la sala da pranzo, questo sarà il mio studio. Ma qui c’è
una cosa che non mi torna: questo è un muro portante e in mezzo c’è un vuoto.
Senti?” e cominciò a battere sulla parete con un mazzuolo.
“Sarà un cavedio con dei tubi”.
“Impossibile: il vuoto è
orizzontale”.
Con tacita intesa afferrammo
martello e scalpello. Dopo alcuni colpi emerse qualcosa. Allargammo il foro e
tirammo fuori un fagotto stretto e lungo avvolto in un telo mimetico. Dall’
involucro emersero un moschetto 38 ed un mitra Beretta, quello con le canne
bucherellate e due grilletti, il primo prodotto in Italia negli ultimi anni di
guerra, e un paio di caricatori. C’era anche un foglio ciclostilato con
l’ordine del giorno della “Divisione Potente” alla liberazione della città con
l’invito a vigilare in armi sulla riconquistata libertà e una copia dell’ordine
degli Alleati di riconsegnare le armi. Non tutti i partigiani lo fecero e
nascosero fucili e moschetti nei modi più disparati, soprattutto murandoli
nelle pareti di casa. Sarebbero servite
per quella rivoluzione proletaria che non ci fu mai perché chi doveva
innescarla non ne ebbe il coraggio.
Uno sguardo d’intesa e
riavvolgemmo le armi nel telo mimetico, preparammo una cofana di gesso e le
murammo di nuovo: portarle in questura, ci sembrò un oltraggio alla memoria del
nonno partigiano e alle sue speranze rivoluzionarie.
E’ passato del tempo. Ma quando vedo le notizie sulla
situazione economica e sui rimedi di Monti, sulla riforma delle pensioni, sulla
disoccupazione giovanile e sul bunga-bunga mi viene da esclamare: “ora si
smura”.
Giuseppe Prunai
“Il giornalista pensionato - Febbraio 2012”
“Il giornalista pensionato - Febbraio 2012”
Nessun commento:
Posta un commento