28 aprile 2017

28 aprile 1945."Loreto prima e dopo Dongo".


Davvero sono stato fortunato a conoscere simili uomini, ascoltare la loro voce, guardargli negli occhi, stringerle le mani. Ed oggi 28 aprile 2017, come doveroso omaggio a tutti loro. Vi riporto le parole scritte ed ascoltate da Paolo su quei giorni ormai lontani. 28 aprile 1945 Milano.  - Ivano Tajetti. - 

Tratto da: 
LA TRAVERSATA  Settembre 1943 - dicembre 1945
Paolo Murialdi. - Società editrice il Mulino - Intersezioni. 



Pag 89. Loreto prima e dopo Dongo.


Sbuchiamo in Piazzale Loreto, dove l’anno prima i tedeschi hanno fatto fucilare 15 antifascisti lasciandone a lungo i corpi per terra, contro quella staccionata che vedo a sinistra. Il nome di questa piazza non mi è nuovo perché c'è un grosso albergo che si chiama proprio Loreto perché era stato il teatro di spassosi racconti dei miei amici genovesi che partecipavano ai Littoriali dello sport. Ora è tutto diverso. C'è folla. Edoardo e Fabio, comandante dei garibaldini lombardi, salgono sul tetto della cabina di un camion per un saluto alla libertà e alla sconfitta del fascismo. Aria e coreografia da rivoluzione. Ma i discorsi durano poco perché un cecchino  - chissà da quale casa - spara alcuni colpi di moschetto. I nostri rispondono all'impazzata. Un bailamme che dura alcuni minuti, ma nessuno è stato colpito. Ci rimettiamo in moto. Una parte della colonna fa via Gran Sasso, piazza Piola, viale Romagna, fino al grande edificio delle scuole, quasi a Piazzale Susa. Quelli della Casotti percorrono strade contigue. Da una parte e dall'altra spari di tedeschi e di fascisti. Ce n'è asserragliati nella Casa dello Studente. Basta qualche colpo di bazooka per la resa. Nelle scuole dove ci hanno condotto non c'è niente è per noi che siamo stanchi e affamati. Non abbiamo portato, viveri l'intendente Franco dice che domani andrà a prenderli. Alla fame provvedono con slancio commovente gli abitanti delle case popolari di via Beato Angelico. Ci invitano nei cortili, e ci danno tutto quello che hanno. Ricordo una donna che mi venne incontro tendendomi un uovo. Per il sonno arrivano balle di paglia. Le due stanze del portiere sono la sede ideale del comando. Ci sono una branda e una poltrona e c'è il telefono. Siamo in due perché Albero e in giro per la città e poi andrà a casa sua. Con una telefonata comincia un evento eccezionale che ingrandisce inaspettatamente la lunga avventura vissuta dai partigiani dell'Oltrepò. Il generale Cadorna convoca Edoardo e Maino al palazzo del comando militare in via del Carmine. Saranno state le nove di sera. Dopo un'ora o poco più squilla il telefono. Edoardo mi dice che bisogna formare un drappello per una missione importante e delicata. “Sveglia Ciro è cominciata scegliere una dozzina di uomini. Cercateli tra i giovani di montagna, sono meno emotivi. Torno e ti dico il resto”. Il resto è più grosso del Monte Bianco: eseguire le condanne a morte di Mussolini ed è gerarchi di Salò catturati sul lago di Como. La missione è affidata al colonnello Valerio del comando generale. A guidare i nostri  - aggiunge - deve andare Riccardo: un compito come questo tocca e spetta all'uomo che combatte il fascismo da tanti anni. Completiamo il plotone dei 12 partigiani e a Riccardo si unisce Piero. Scelgo il camion scoperto della Ovest Ticino. Gli uomini ci stanno stretti ma è veloce, il più veloce degli automezzi trovati lungo la strada. Fare presto è importante; e dalle prime luci il tempo promette bene. A questo punto - saranno state le sei del mattino - viene a galla un malinteso che è frutto della confusione che regna sia al comando generale sia in quello, modesto dell'Oltrepo: ho mandato il drappello in via del Carmine mentre Valerio arriva in viale Romagna. Scende da una 1100 nera coi parafanghi dipinti di bianco. Indossa una giacca vento grigia dei brigatisti di Salò, sulla quale spiccano i gradi partigiani da colonnello: un rettangolo di panno rosso con due stelle dorate. Porta il basco che tutti vedranno quando si svelerà come il fucilatore del duce. Imbraccia un mitra. Sul sedile posteriore della 1100 c'è un uomo che indossa un impermeabile bianco. Porta gli occhiali da vista e appare disarmato. Non scende. Ci salutiamo con un gesto. Nel frattempo i nostri tornano da via del Carmine. Quando vede il camion Valerio comincia a urlare che è piccolo. Rispondo che basta e che è veloce. Nasce un alterco. Lui è adirato e io non posso capire il perché. E urlo. Lui vuole parlare con il comandante ma Eduardo non c'è. È andato alla periferia della città per togliersi la soddisfazione di dare il benvenuto a Moscatelli e accompagnarlo nel luogo deputato: piazzale Loreto. L'uomo rimasto in ombra sollecita Valerio a smetterla e a partire. Vanno. Saranno state le 6.30. Basta questo particolare per capire che il partigiano della spedizione che conta di più è l'uomo dell'impermeabile bianco. A metà giornata del 28, mangiando il pane e salame importato dall'Oltrepo, Edoardo mi racconta alcuni particolari dell'incontro con Cadorna, Longo e gli altri del comando. Dice di aver dato a Maino un calcio in uno stinco perché temeva che stesse per dire a Cadorna che sarebbe andato lui a Dongo: come un atto dovuto da un tenente delle batterie a cavallo (di complemento ma di quale reggimento!) a un generale cresciuto nella Cavalleria. Ma la scelta è già fatta. Cadorna indica Valerio. È un aiutante di Longo, vice comandante con Maurizio del CVL. Avremo la conferma delle designazioni il 5 maggio, alla sfilata dei partigiani nelle vie di Milano. Sia Valerio sia Guido - questo il nome di battaglia dell'uomo che indossava l'impermeabile bianco - sfilano alla testa del corteo, ma il secondo e alle spalle di Longo. E’ il suo vice. Mi colpisce un particolare: L'importanza fondamentale del telefono nella vicenda finale di Mussolini. La notizia della cattura era arrivata Milano attraverso due telefonate. La prima dalla casermette della Guardia di Finanza a Germasino, dove avevano fatto sostare il duce prigioniero, l'altra da una centrale elettrica. Senza il telefono in funzione che piega avrebbero preso la conclusione della tragica storia del fascismo? Inglesi e Americani stavano correndo verso Lecco e loro agenti - è noto  - erano già a Como. Per ore e ore non sappiamo più nulla dei nostri. Il 28 è una giornata frenetica per i Milanesi e per i partigiani. Ce n'è dappertutto, ora. In piazza del Duomo parlano Pertini, Moscatelli e Bonfantini, che è il comandante delle brigate Matteotti. A noi ci portano a radio Libertà, all'ultimo piano di una palazzina che riconoscerò più tardi. È in via Telesio. I fascisti ci avevano installato radio Tevere che era molto ascoltata dai giovani perché trasmetteva molte canzoni e musica da ballo. Edoardo e io raccontiamo qualcosa con emozione e foga. I giornali di partito, già usciti il 26, vanno a ruba. Non c'è il “Corriere della Sera” la cui diffusione è stata bloccata dal Prefetto nominato dal CLN. Vicino a viale Romagna c'è il comando dell'Aeronautica. Si arrendono e consegnano un bel po' di soldi che portiamo al Comando generale. Non si arrendono, ma non è una sorpresa, le SS chiuse nell'Hotel Regina (che non c'è più) E i Marò della 10ª Mass asserragliati in un edificio moderno in Piazza Fiume (poi Piazza della Repubblica) davanti al quale hanno innalzato sbarramenti con filo spinato e sacchetti di sabbia. Aspettano gli Alleati. Passo molte ore nella scuola per tenere dei collegamenti. Siamo in ansia per la spedizione di Dongo conosciuta da pochi comandanti.  La notizia arriva alle prime luci del 29; per telefono, naturalmente. È una notizia bomba che mi coglie - come dire - impreparato.. Con voce rotta uno dei nostri dice: “Siamo in Piazzale Loreto con i cadaveri dei fucilati.” Edoardo, io e il Moro saltiamo nell'auto gialla. Piazzale Loreto non è lontano. C’è già parecchia gente che impreca e cerca di raggiungere i cadaveri. Altra gente arriva dalle grandi strade. Ma il Moro riesce a portare l'auto fino alla cordonatura del marciapiede, proprio di fronte al punto in cui giacciono i corpi di Mussolini e di Claretta Petacci.  Da una parte e dall'altra altri cadaveri. Alzandoci in piedi vediamo l'intero, sconvolgente spettacolo. La presenza della Petacci è una sorpresa. Si capisce in un lampo che aveva raggiunto Mussolini in fuga pagando con la vita la sua fedeltà e il suo ruolo di favorita del dittatore. Se non fosse stata lì non avrebbe dovuto morire; ma era al fianco di Mussolini. Non avevo mai visto il duce da vicino. Una volta, di sfuggita mentre passava in auto durante l'ultima visita a Genova. Ricordo bene il fanatismo dipinto sul viso di alcune donne accanto a me. Da morto ha gli occhi semichiusi, come se guardasse lontano. La mano del braccio destro ripiegato all'indietro regge un'asta di nichel lucente che termina con l'insegna dorata di Salò. Sul suo petto e appoggiata la testa di Claretta in camicetta bianca e sottana nera. Tra gli altri fucilati distinguo Pavolini, Barracu e Mezzasomma. L'insieme risponde, con un effetto tragico, alla scelta di gettare nella polvere il dittatore, la sua amante e i suoi scherani e di mostrarli alla folla. Sui corpi si vedono i segni dell'ira e degli oltraggi -  calci, sputi, colpi di rivoltella - che di lì a poco riprenderanno gli operatori americani di “Combat Film” e che vedremo sui teleschermi quasi cinquant'anni dopo. I nostri ragazzi appaiono inebetiti per le emozioni, le paure, la stanchezza. Sparano in aria per cercare di tenere lontana la folla. Edoardo fa chiamare i pompieri, ma ne i colpi dei moschetti ne il getto dell'acqua sono sufficienti. Ritiriamo i nostri lasciando ad altri partigiani il posto vicino a quel marciapiede. Di Moscatelli? Di Bonfantini? Non so. Così come non saprò mai chi decise di appendere al traliccio del distributore di benzina fuori uso i corpi di Mussolini, della Petacci e di quattro gerarchi. Si dice che sia stato fatto per mostrarli alla folla che ormai stipava anche le strade di accesso al piazzale e far vedere che il dittatore era proprio morto. È probabile. Ma è certo che scontiamo ancora oggi il giudizio di spettacolo raccapricciante e vergognoso da parte di molti Italiani e stranieri tutte le volte che si riparla della morte di Mussolini o si rivede quell'immagine. D'altra parte, in Italia, per riparlare di quell'evento basta poco. Basta dire che il mitra fatale si trova nel tal paese oppure che sparò anche una rivoltella. Notizie come queste  - sovente inventate - fanno il giro d'Italia sui giornali. E si torna a citare piazzale Loreto. È vero che ciò che accadde in quel 28 aprile fra Bonzanigo e Giulino di Mezzegra forse si continuerà a non sapere tutta la verità. Allora, dai partigiani dell'Oltrepo che erano partiti con Guido e Valerio ascoltammo racconti di seconda o di terza mano perché il drappello era rimasto a Dongo con Riccardo. Forse lassù era salito Piero ma né lui né i testimoni lo dissero. Non è un quesito importante ma me lo sono posto sovente: perché il Partito Comunista, tanto abile e attento, ha gestito cos’ male la storia della fine di Mussolini?  Prima il silenzio, poi le ammissioni e il libro di Valerio poi le rettifiche le precisazioni. Non ho letto tutto quello che è stato pubblicato sulla vicenda. Ma qualcosa ho letto. E mi sono fatto l’idea che la versione più attendibile sia quello di Guido, l’uno dell’impermeabile bianco. L'aveva scritta nel 1972 e l’aveva consegnata ad Armando Cossutta. L’ “Unità" la pubblicata il 26 gennaio 1996, alcuni anni dopo la scomparsa dell’autore, a cinquant'anni dalla morte di Mussolini. I nostri tornano in Via Romagna con il vecchio e sinistro camion da traslochi che Valerio aveva cercato affannosamente a Como perché con quello scelto da me non avrebbe portato neppure una persona in più. La decisione di trasportare i cadaveri a Milano, in quel piazzale che era già luogo deputato della lotta antifascista, evidentemente era stata presa prima. Da chi? Da Longo quasi certamente. È un camion grigio scuro, senza scritte, sporco e con feritoie orizzontali sui due lati. Doveva essere stato trasformato così da una brigata nera per i rastrellamenti. Una vista in fondo fastidiosa. Non per la morte di Mussolini che non c'entra. Si sapeva che se fosse finito nelle mani dei partigiani sarebbe stato fucilato. Ne eravamo tutti consapevoli e, credo, convinti. E non c'entra neppure la morte di Claretta Petacci che si era aggrappata all'uomo che amava follemente e così non poteva che essere vista come la favorita del dittatore. Era fastidioso il pensiero di tutti quei corpi buttati tra i piedi dei partigiani del plotone di esecuzione nel rocambolesco viaggio tra Dongo e Milano e degli oltraggi perpetrati da una folla imbestialita. Quante cose e disparate accadono intorno a me in quei giorni di Milano liberata e ora percorsa dalle Jeep degli ufficiali americani e dei neri della Military Police. I tedeschi si sono tutti arresi e gli alleati arrivano al Brennero. Fiorentini ha ricevuto una lezione ma anche la gogna di una gabbia da Stradella  a Varzi. Vengono a dirmi che c'è un morto sul marciapiede di piazzale Susa E si scopre che è Carlo Borsani, il cieco di guerra, cantore di Salò, Chi la ucciso? Chi lo ha portato la? Qualcuno dei nostri, ma nessuno parla. Vado a trovare l'unico amico genovese che vive qui e si diverte a chiedermi quando comincerà la guerra fra gli Angloamericani e i sovietici. I primi segnali del - chi n’ebbe n’ebbe - me li danno una bella ragazza genovese e un ex compagno di scuola. La ragazza si era dedicata agli agi degli ufficiali nazisti e ora  - la vedo scorrazzare in jeep - si gode gli agi degli ufficiali americani: il mio ex compagno di scuola ha fatto borsa nera ad alto livello, è diventato ricco e così è riverito. Sono cose che colpiscono il mio moralismo in giornate di libertà e di grandi speranze. E di contentezza perché so che mia madre sta bene e che mio padre lavora a Roma nel quotidiano della Confederazione del lavoro, dopo la fuga a Napoli. Stiamo a Milano fino al 5 maggio, giorno della sfilata. Abbiamo lasciato la paglia della scuola ritorniamo sparsi in piccoli alberghi nel quartiere della stazione. In giro ci sono battone non più condizionate dal coprifuoco. Nell'albergo dove dormo assisto a una scena da film americano: due neri della Military Police, chiamati per calmare un commilitone ubriaco e urlante, lo stendono con un uppercut e ne trascinano il corpo per il corridoio e le scale. Incontriamo corrispondenti di guerra inglesi e americani, (il più noto e Cecil Sprigge) e italiani. Uno, Gino De Santis, conosce bene mio padre e le dirà per primo la notizia che sto bene e che sono un partigiano. La sfilata passa nel centro della città: il Corso tra le macerie, Piazza del Duomo, via Dante. Il palco con un generale Americano è stato innalzato davanti al castello Sforzesco. In testa c'è il comando del CVL con Cadorna al centro fra Parri e Longo. Cadorna sfoggia un abito sportivo con i calzoni alla zuava e calzettoni a scacchi scozzesi. Davanti al comando dell'Oltrepò porta la bandiera la staffetta Susi. A tutti i tricolori della nostra brigata abbiamo tagliato lo stemma sabaudo. Le bandiere bucate sono il nostro voto anticipato per la Repubblica. Anni dopo leggo un racconto di un ragazzo di Salò, Carlo Mazzantini, e scopro che nel suo reparto, subito dopo l'8 settembre, avevano bucato le bandiere. Niente di grave, per carità, perchè il loro no ai Savoia era di rabbia e assecondava i nazisti, i nostro era ormai l’aspettativa di democrazia. Si è conclusa la mia guerra contadina. Ho compiuto il primo tratto - quello forte che può cambiare la vita - del mio viaggio di formazione dalla giovinezza alla soglia della maturità. Torno in Oltrepò, alla mia seconda Voghera. 

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